mercoledì 21 dicembre 2016

Apro e chiudo

"Rose di bosco", Ceredo, Verona.

Da tempo nel linguaggio "da falesia" il verbo "chiudere" ha un significato che non si limita a descrivere  il diminuire dell'angolo acuto tra avambraccio e braccio.
Chiudere, oggi, è "chiudere" i conti con una via, archiviarla, registrarla.
Per contro non sembra aver aggiunto significati la parola "aprire", la quale rimane legata alla debolezza muscolare, alla salita da primi di cordata, e in un certo senso preso in prestito all'edilizia, al cantiere.
Sono solo parole, ma dicono di noi, del nostro modo di sentire, di pensare e di agire il mondo.
La sociologia, in special modo quella francese, ha cercato di identificare qualche caratteristica che accomuni gli abitanti di questo "campo" sociale legato al "verticale".
Pare quindi che flirtare con il pericolo possa offrire la possibilità di respirare il "vero sé”.
Gli sforzi di una società  come la nostra, sempre tesa a ridurre allo zero le manifestazioni quotidiane di incertezza, sembra soffocare l’individuo.
Ecco quindi la ricerca di ostacoli per ritrovare la pienezza di una vita minacciata dall’assenza di sorprese.
Scalare una montagna offre un'arena alternativa che non sia il posto di lavoro o la routine quotidiana. Lo scopo sarebbe quello di fornire un certo grado di insicurezza per soddisfare le aspettative di qualcosa di inaspettato e di rischioso.
L'incertezza e l'intensità dell’impegno vanno a compensare la calma piatta di un’esistenza senza sorprese.
L'arrampicatore testa la sua capacità di superare la paura e di mantenere il controllo in situazioni di pericolo, o di rischio, per accedere ad un senso di auto-realizzazione.
Resta il fatto che le nostre scelte, i comportamenti e le traiettorie di sviluppo sono in parte inconsce, soprattutto indotte dalle caratteristiche sociali che ci accolgono quando veniamo al mondo o più specificatamente quando entriamo in particolari campi sociali.
I personaggi che il più delle volte si lanciano in queste attività verticali lo fanno per vedersi alla prova in situazioni "volutamente" rischiose.
I motivi per abbracciare  questi sport sono tanti, non ultimo la volontà di inserirsi in un certo tipo di società.
Il rischio è qui inteso come la percezione soggettiva del pericolo.
Tagliando tutto con l'accetta, con buona pace di chi ha scritto tanto in materia, potremo dire che "ce la raccontiamo" e successivamente ci illudiamo che sia vera.
A fondamento di tutto sta il rapporto tra il pericolo e le tre declinazioni della rappresentazione soggettiva che ne abbiamo, che condividiamo e che raccontiamo a chi sta fuori da questo campo "verticale".
Una differenziazione concettuale tra il rischio e pericolo è utile per eliminare alcune ambiguità.
Il pericolo si riferisce a una serie di minacce che possono danneggiare gli eventi e che si possono verificare se vengono soddisfatte determinate condizioni o combinazione di fattori.
Il rischio è un modo personale di guardare e immaginare il pericolo.
Il primo è concreto, il secondo vive solo nelle nostre teste.
L'arrampicata già nel materiale che utilizza, è tutta tesa ad eliminare i pericoli mortali, cosa che non sempre vale nell'alpinismo.
Questo "campo" verticale sembra quindi attirare chi condivide inconsciamente le regole del gioco.
Serve una sorta di predisposizione d'animo per accettare un gioco che mette in palio al suo interno, come ogni società del resto, posizioni più o meno di prestigio.
Per posizioni, intendo ruoli che spaziano e si differenziano per il "potere" che rivestono solo ed esclusivamente in questo contesto.
Banalmente, il peso di un neofita non è paragonabile al "peso" di un forte scalatore affermato a livello nazionale, cosi come l'autorità di un chiodatore storico non è paragonabile a quella di un "apprendista chiodatore".
Vuoi per estrazione sociale, vuoi per tempistica dell'ingresso "in campo", vuoi per mille altri motivi, fatto è che muoviamo le nostre scelte partendo da una posizione inconscia, non lo dico io, lo dicono sempre fior di sociologi.*
Loro, parlano di "Habitus", del principio non scelto di tutte le scelte, e affermano che il tutto funziona meglio se in questa lotta per le posizioni pregiate del campo, rimane inalterato lo squilibrio iniziale, meglio ancora se il dominio è legittimato dal dominato come se fosse una cosa naturale.
Sono solo parole...
Dicono che l'"habitus"sia storia incorporata e rimossa che si deposita nel corpo, nei modi di fare.
Riutilizzando la cara accetta: provate a pensare quante cose sono date per scontate oggi in arrampicata, rispetto a quelle che negli anni ottanta scontate non erano, pensate a quante volte controllate gli ancoraggi prima di moschettonare...
Ancora: provate a pensare quanto sia normale, nella vita orizzontale, accettare il fatto che in un mondo di uguali, essere ricco può anche voler dire che in un ipotetico  scontro frontale tra un SUV e un'utilitaria, (visti come massimo potere di acquisto dei due protagonisti),  muore il povero: ovvio.
Ovvio non è, ma lo diviene quando diventa storia incorporata e rimossa.
Questa "digestione" del rischio che avviene nei gesti quotidiani e la ricerca sui materiali che spinge sempre più verso la sicurezza, per assurdo muove il mondo verticale verso il pericolo.
Chi occupa i posti nobili di questo campo sociale non volendo farsi riassorbire dal gruppo,  e avendo un Ondra che chiude a doppia mandata la via di fuga verso la difficoltà e verso il prestigio, spinge "il campo" verso il trad, gli highball e in generale in tutto cio che riavvicina il rischio al pericolo.
Le eccezioni esistono ovviamente ma non "fanno statistica" e se non siete convinti, potete leggere i racconti delle ultime imprese del più famoso arrampicatore italiano che pur di rimanere sulle pagine aumenta la pericolosità delle sue ascese in modo proporzionale al probabile calo del grado di prestazione...
Ci si illude sia libertà, o forse la si vende meglio se la si veste cosi.
Altri ancora, forse i più comodi, si mettono a chiodare, ma questo è un altro discorso.

La faccio breve, dove voglio arrivare?
Perché tutte queste parole sulle nostre origini?
Perché occorre svelare la parte inconscia, la base di partenza con la quale oggi si approccia l'arrampicata.
E non mi si venga a dire che è solo un problema di nodi e manovre, insomma di cultura da trasmettere attraverso le scuole.
Restiamo ai fatti e diventiamo concreti.
L'economia ha preso un suo posto in questo sport, minandolo in qualche modo alla base.
Rischio residuo ineludibile e larga massa di utenti sono concetti che fanno a pugni: se vuoi la massa devi eliminare il rischio, se elimini il rischio muore il motore originario dell'arrampicata.
La lunga mano economica è accettabile se invisibilmente aiuta tutto il sistema, se rimane radicata nel suo campo e reinveste in esso l'economia e la cultura che produce.
Fondamentale in questo contesto rimane l'equilibrio comunicativo tra le parti.
Si tratta di pensare, di veicolare immagini in grado di creare un filo conduttore capace di "aprire" a un  futuro che non sia fuorviante.
Aprire, cedere, è accettare l'evidenza dell'inutilità del resistere.
"Insomma lo spirito (dell’arrampicata) non si può far resuscitare, è quello che è, ed è un po’ figlio dei suoi tempi, anche se è sempre possibile guardare in avanti ed aprirsi a qualcosa che sia nuovo, aldilà dell’economico, anche senza demonizzare il lato economico pensando che tutto ciò che c'è di sbagliato derivi da esso"***.
Le cose buone da sempre aprono al mondo, ma per un climber, aprire, suona spesso di sconfitta.
Chiudere è vincente e rassicurante.
Fare gli struzzi, per cominciare a giocare su cose che si facevano cinque lustri fa, poggia su una storia dimenticata a parole ma riassunta nei gesti.
Più concretamente: sono cambiate le poste in gioco, le posizioni di potere e le posizioni di ingresso in questo campo.
Si "vola" in palestra senza pensieri, si provano passaggi estremi cadendo su materassi.
Il gesto migliora ed ecco che piovono gli 8c da fotografare, le performance da pubblicare sulle riviste.
Ma quel gesto si compie su fissi che gridano pietà, su maillon logori e fettucce prossime in modo asintotico alla pensione.
Il rischio non viene più percepito, riassunto quasi a livello di postura, cristallizzato in un grido strozzato a sottolineare il passaggio difficile.
Rimane solo la performance.
C'è il racconto epico, i tentativi, l'allenamento, il sogno coronato, c'è pure la foto del gesto atletico.
Nella foto cozzano, la cura dell'allenamento, i relativi muscoli scintillanti e lo stato infame dei fissi.
Sarò antico, ma la pornografia verticale dei corpi in tensione non mi tocca tanto quanto lo stato del supporto su cui questa si svolge.
Il mio sguardo va alla ormai data per scontata sicurezza, affidata ai rinvii nuovi dello sponsor che battono su maillon corrosi dei vecchi fissi, questo quando le cose vanno bene... di altri orrori lascio a voi la ricerca nelle riviste di settore.
Sono solo parole, ma con le parole ci comunichiamo il mondo.
L'invito è quello di aprire, iniziando a raccontarlo in modo più onesto: meno epica, meno eroi.
Se uno spazio di libertà esiste, necessario per confrontarsi con le scelte, lo si trova nel perdersi fuori dall'abitudine, nel sapere che ogni tassello messo potrebbe essere quello che trattiene il tuo errore.
Hai un bel insegnare i nodi e tutto il resto se poi non ricordi che arrampicare è cercare, mettersi in gioco in modo singolare con gli appigli e gli appoggi di un tiro.
L'inutile gazzarra competitiva che viene inscenata ogni week-end sotto quei soliti 4 tiri comodi imparati a memoria, potrebbe essere protetta da quel solo tassello in cui si aprono le mani.
Se, di tutto, rimane solo la prestazione atletica, hai un bel parlare di fissi, di usura da muolinette in catena...
Non puoi credere di far passare un messaggio a parole senza accompagnarlo con il gesto, sarebbe poco credibile non aver nello zaino un fisso inox, e magari una ghiera da dedicare alle moulinette attaccata all'imbrago.
Non puoi fare passare il messaggio se tu, azienda che promuovi l'arrampicata, non sensibilizzi i tuoi atleti a produrre foto in grado di veicolare un messaggio corretto: intendo quindi prodotti nuovi, rinvii nuovi e fissi nuovi; perchè soprattutto attraverso le immagini si veicola un pensiero.
Invece non ci si pone nemmeno il problema, incorporato e riassunto nei gesti.
La logica dei tiri chiusi, o da chiudere, porta ad un degrado appropriativo, capitalista e personale.
Occorre cambiare questo racconto per tornare al rapporto tra roccia e uomo, tra problema e risoluzione, spaziare fuori dai numeri proposti dai gradi e portare un po di magnesio fuori dalla nostra abitudine.
Solo cosi hanno senso le falesie da 300 tiri, diversamente ne bastano 4 di tiri, magari mal-gradati, per far contenti i criceti che raccontano quello che vive nella loro testa...
Salvo poi non raccontare del muso lungo che appare quando un 6b non ci fa passare mentre ci raccontiamo che l'aver chiuso un 8a fa di noi un top climber.
Non raccontiamo che il socio condivide lo stesso interesse comune per questa sciocchezza ed è quindi un complice.
Non raccontiamo agli altri, fuori da questo campo, che in realtà il rischio è minimo ed è legato all'ambiente e che raramente in arrampicata sportiva il rischio si avvicina al pericolo.
Ripeto: lo spirito dell’arrampicata, oggi, è quello che è, ed è un po’ figlio dei suoi tempi, la distanza rischio/pericolo è sempre più dilatata.
Per ritrovare quelle sensazioni originali sarebbe il caso di rivolgersi ad altri sport.
Pare incredibile ma "le parole sono piccole macchine esatte, [...], se uno non le sa usare, tanto vale che non le usi, è meglio per tutti che si rassegni a restare quello che è, cioè un rozzo animale che a fatica indica col dito le cose cercando di ricordarsi qualche fonema che le significhi, ma senza lamentarsi poi se la gente lo prenderà a calci come un cane randagio".**
Aprire è far cadere la maschera: quel rischio raccontato non ha senso farlo abitare ancora in questo campo, perché se ancora lo troviamo in parete, è spesso per incuria.
Lasciare che il tutto evolva è contaminazione, è l'intervento di richiodatura di Ceredo con fondi europei, è l'idea del fotografo che arma i trapani, è l'idea... anche dell'economia, ma poco importa, perchè è l'idea di Nicola, di Mauro, di Gianpaolo, idee che ancora una volta sono trasversali, tese a tagliare le chiusure che questo mondo verticale vive con orgoglio.
Certo non sarà mai un parco giochi, il pericolo rimane, ma la società ha l'obbligo di pensare e di fornire risposte alla realtà che si afferma.
L'apertura è far luce sui 25 anni di storia, ricordare perché ci muoviamo oggi in questo modo sul verticale.
Aprire è riproporre con garbo e cura la vecchia maglietta del Ceredo Climbing Team, per armare di nuovo i trapani che ne abbiano titolo, magari anche legale, per conservare Ceredo.
Perché le parole devono essere esatte ed è il caso di affermarlo: "chi chioda non è sempre da ringraziare".
I tempi sono cambiati, i tempi per raccontare questa nuova storia sono ormai maturi.
Solo una fascetta avvolge una maglia e racconta la memoria di ciò che abbiamo assorbito e dimenticato.****


è solo questione di parole?
forse... ma anche lo fosse è una questione che apre e non chiude.
Da un vecchio hard disk spunta questo documento riesumato e trasformato in "documentario", (oggi i video si fanno in altro modo e con altri mezzi).
Luca Gelmetti sale il 15 Maggio 2003 la via "Nagai" 8c al Covolo.
"Nagay" è una via chiodata da Marco Savio, ha un nome di fantasia che nelle intenzioni del chiodatore doveva tradurre in "lettere" un grido di battaglia simbolico.
La visita di forti climber giapponesi ha ricondotto il nome "Nagay" ad un significato sensato, mutando la "y" in "i".
Oggi è per tutti "Nagai", ma fuori dai social e dalle graduatorie web, per chi conosce la storia, resterà a lungo "Nagay".
E' questioni di nomi, "Nagai" o "Nagay" non è la stessa cosa: chi "chiude" le vie, annota "Nagai" sui social e la fa "consigliare" alle radio di settore... alimentando un'economia parassita.
Chi sale "Nagay" annota sul suo diario personale e sostituisce i fissi logori prima della performance, alimentando un'economia trasversale, utile a tutti perché tiene aperto un mondo.

Nagai from Mountain View on Vimeo.
Riprese di Emanuele Pellizzari.
 Musica: "Block Rockin' Beats" - The Chemical Brothers.


Per la cronaca già nel 2003 era buona prassi di Luca sostituire i fissi logori delle vie che avrebbe in seguito tentato di salire.


note:

- * Alcuni concetti sono grossolanamente riassunti da: https://sociologies.revues.org/3121#tocto1n2
altri provengono dal pensiero di Pierre Bourdieu.
- ** Cit: "Smith & Wesson" di Alessandro Baricco.
- *** Cit: "Vinicio Stefanello" via Skype.
- **** Le magliette si trovano presso il negozio "Turnover" interno al "King Rock".

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